Se è vero che per sua natura l’uomo è portato ad accogliere l’imprevisto, è vero anche che per chiunque sarebbe stato difficile immaginare che nel 2020 ci saremmo imbattuti in una pandemia.
Un’emergenza impensabile per i tempi moderni, che, come un fulmine a ciel sereno, ha travolto le nostre esistenze, una di quelle esperienze che irrompe nel “normale” fluire della vita, tracciando un solco tra un prima e un dopo. In mezzo, la netta cesura dell’emergenza Covid-19, in seguito alla quale ci chiediamo se il mondo sarà come in precedenza lo abbiamo lasciato.
Insieme a tante vite umane, questo tzunami ha trascinato via con sé tutte le certezze consolidate improntate alla libertà di movimento, alle public relation, alla centralità dei consumi nella nostra società occidentale.
In un attimo la prevedibilità rassicurante si dissolve: qualcosa di invisibile può minare le impalcature sedimentate nei secoli; un virus che, viaggiando libero e silenzioso nell’aere, si è insinuato beffardo in noi, permeando ogni cosa e stravolgendo i ritmi della nostra quotidianità nel suo dispiegarsi fino a giungere al cuore dei suoi aspetti più intimi, familiari, separandoci proprio da quei gesti e affetti che più ci rassicurano; pervadendo anche la sfera lavorativa, scolastica, del tempo libero e delle amicizie.
Costretti ma anche contenuti entro le mura domestiche a sfornare pizze, abbiamo conosciuto così la dimensione del limite e del confinamento, seppure certamente non paragonabile all’esperienza carceraria, ma comunque una frustrazione alla libertà cui siamo abituati.
Un’amputazione necessaria giustificata dal superiore interesse collettivo: la sopravvivenza di fronte ad una minaccia che ha scompaginato le carte della società e della politica mondiali. Una situazione inusuale, degna della trama dei più fantasiosi film americani del tipo “Io sono leggenda”, che ritraggono il contagio nell’immaginario collettivo in uno scenario desertico di città abbandonate e dilaniate da un virus distruttivo.
Assistiamo, dunque, al vacillare impotente delle abitudini e cambiano i paradigmi relazionali: paradossalmente il distanziamento diviene protezione, con l’emblema dei nonni lontani dai nipoti per proteggersi e per proteggerli, e l’applicazione di alcune regole comportamentali per fronteggiare una possibile e temuta recidiva.
Torniamo gradualmente ad uscire di casa, a rifrequentarci ma a debita distanza: niente baci e abbracci, neppure strette di mano. Ci laviamo continuamente le mani, e i guanti sono come una pellicola isolante tra noi e le cose su cui può depositarsi subdolo il batterio.
Il distanziamento sociale è il nuovo modo di porsi nelle relazioni: ovunque nei luoghi pubblici o sui mezzi di trasporto non possiamo stare gli uni accanto agli altri ma tra una sedia e l’altra è ormai prassi lasciare un posto vuoto, rimembrando a noi stessi continuamente che le goccioline di saliva cariche di virus potrebbero essere lì presenti e potenzialmente sempre in agguato.
Tutto diviene virtuale: lo studio, il lavoro, la socializzazione, persino il sesso.
Cambia anche il linguaggio arricchendosi di alcuni termini come smart working, lockdown, assembramenti, che divengono ridondanti per le nostre orecchie.
L’uomo va in stand-by per un paio di mesi e, mentre va in letargo, la natura si riappropria dei suoi spazi determinando quantomeno una riduzione dell’inquinamento.
La cosiddetta “fase 2” fa forse meno paura, ma è proprio perchè è apparentemente più rassicurante è anche più infida, in quanto ci fa abbassare le difese.
È il momento di ricostruire dopo le macerie, tempo di profondo rinnovamento e di trasformazioni radicali dove servono idee nuove, discontinuità e coraggio.
È giunta l’ora di reinventarci: inizialmente cominceremo a vivere a singhiozzi, come quando si accende una macchina rimasta col motore fermo da tanto tempo.
Le città si ripopolano, e come le lumache che escono dopo la pioggia gli uomini si riaffacciano timidamente alla vita, una vita finalmente senza farina ma muniti dei dispositivi di protezione che diventano parte del Sé.
Adesso occorre definire le priorità, varando manovre economiche per arginare una crisi che lascia un paese stremato come fosse reduce da una guerra.
Non si muore solo di Coronavirus: dietro l’economia ci sono le vite delle persone, i loro sacrifici, sogni, speranze e il desiderio di non far mancare nulla ai propri figli.
Ci siamo ritrovati a doverci confrontare con l’ansia, la paura, la malattia e la morte ma anche con la speranza, il cambiamento, nuove risorse. Resilienza.
E’ sempre bene cercare di trasformare i periodi più bui in occasioni di opportunità.
Ma quali insegnamenti potremmo trarre da tutto questo?
L’emergenza pandemica ci ha fatto capire per esempio quali sono le cose più importanti, che la salute è la prima cosa, quali sono le persone che tengono davvero a noi, che siamo tutti collegati e viaggiamo sulla stessa barca (pensiamo che come il battito d’ali di una farfalla, un virus, nato verosimilmente in un angolo sperduto della Cina, abbia potuto modificare interi scenari globali).
Ci ha insegnato altresì che siamo ospiti di una terra da rispettare e salvaguardare, che dopo ogni salita c’è sempre una discesa, così come dopo la fine un nuovo inizio.
Sui libri di storia si dica pure che abbiamo vissuto ai tempi del Covid-19.
“quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla, anzi non sarai nemmeno sicuro sia finita per davvero… ma su un punto non c’è dubbio… uscito da quel vento, non sarai più lo stesso che vi è entrato”.
Chissà forse ne usciremo migliori, imparando ad apprezzare maggiormente ciò che ci può offrire la vita, o forse, in fondo, resteremo sempre quelli di prima, ma con la mascherina, ultimo accessorio da sfoggiare.