
Recensione di Licia Cardillo Di Prima
Non c’è essere umano che durante la vita non sperimenti l’amore, il desiderio, la paura, il dolore, naturalmente con intensità e modalità diverse, legate alle condizioni e alle sensibilità individuali. Può capitare però che la marea della sofferenza fisica e psichica superi il livello di guardia scompaginando tutto e lasciando solo relitti, cocci sparsi da raccogliere e ricomporre, da cui però possono venire fuori versi di rara bellezza, come nel caso di Bia Cusumano.
La silloge è la traversata nella vita di chi anela a recuperare i pezzi scomposti di sé, le macerie disseminate dal dolore. Quando “crudele affonda la lama sottile” e si allentano i confini nel corpo sofferente che trema, che brucia, che urla, a tal punto da non poterlo più arginare, la realtà diventa instabile, fluida e tende a sciogliersi per ricomporsi in altre forme. Si rimane preda di quella che Montaigne chiamava branloire, ossia danza, scossa, nella quale tutto si frantuma e s’intreccia: il male e il bene, il silenzio e la parola, l’appartenenza e la distanza, “ciò che si disfa e ciò che si crea”, il tempo e la sua fine. Il mondo diventa una “giostra impazzita” dove è impossibile trovare un aggancio che non sia la memoria, la sola che – attraverso la parola – può ricucire i lembi sfilacciati di una vita non vissuta e trovare un senso “nel bivio delle scelte smarrite”.
Nell’impermanenza, nella perenne tensione verso qualcosa che sfugge, “restare” è l’unico verbo che l’autrice vorrebbe coniugare, il verbo della quiete, della pausa al dolore, della tregua nell’occhio del ciclone. Restare per fermarsi, trovare l’equilibrio tra mente e corpo, voce e parola e “respirare” il soffio vitale che faccia da contrappeso alla pesantezza del vivere.
Respira, ché il cuore è livido
di dolore ma batte sepolto
tra le sue macerie.
Respira, ché la Bellezza esplode
tra le mani come ali di farfalle.
Una raccolta piena di ossimori che echeggia di tacite preghiere, di desideri mai soddisfatti, di promesse infrante, di cocci sparsi da una mano maldestra, serpi elettriche sotto la pelle, porte chiuse con faccia assente.
Con la parola l’autrice ingaggia una lotta impari per costringerla alla resa e farsi specchio del dolore, lama affilata da affondare nelle ferite, luce che rischiara le connessure dell’anima e perfino corpo danzante su sponde di piacere, mai giunto, mai perduto. Bia gioca con metafore ardite, lanciandole come biglie in alto per fare acquistare loro energia e ricondurle poi al senso letterale. Una parola acrobatica, la sua, che ignora la legge di gravità, capace di sfiorare le cime più alte e gli abissi più profondi e che spesso si fa madre amorevole, ventre accogliente nel quale rannicchiarsi per curare le rughe del dolore, le cicatrici infette della Distanza, le viscere trapassate dall’Angoscia. E rinascere, partorendo se stessa.
E nel silenzio ritrovo
le parole.
Madri amorevoli
del mio destino.
Accolgo il carico.
Rigetto le colpe.
Torna flebile
la vita sull’argine
dello strappo feroce.
Ricuci dall’alto,
Tu, vigile
sentinella dell’Oltre.
L’Amore
mi ha restituito il Canto.
Come la voce al canto è un diario lirico, un dialogo d’amore con un tu lontano che può essere amante, amica, madre, ma anche il proprio doppio e che, come nella favola di Amore e Psiche, può dileguarsi nel momento in cui si possiede.
Ma ciò che si perde spesso rimane per sempre.
Acre e sfuggente, tutte le volte
Che mi possiedi mi perdi
Sono tua se ti accosti
come nell’ombra una lama di luce,
se trapassi il mio ventre
e taci come un asceta
nella sua desolata radura.
Gemmano dalle mie pupille
Parole nuove per te.
Vieni e semina il silenzio
Che sanguina di passione e di assenza.
Fulcro della raccolta è l’amore, un amore incompiuto, sempre in bilico tra presenza e assenza, incapace di compiere l’ultimo balzo, per raggiungere la perfezione e l’armonia – come fa la voce al canto, la parola alla lingua – e, per questa sua instabilità, oltre a Bellezza, può farsi Bestemmia, Rosario, Dolore. Può farsi strappo e ferita, luce e sangue e risorgere pure dalle ceneri con volto nuovo, come un miracolo che si rinnova – un’epifania che non smette mai di accadere e si avventura su altre rotte – perché l’amore aspira all’eternità e tende – direbbe Recalcati – a trasformare il caso in destino.
Ricordami che ci siamo già amati.
Altrimenti rischio
Di innamorarmi di Te
ogni volta che ti guardo.
Di nuovo. Da capo. Sempre.
Come un miracolo
che non smette mai di accadere
L’Amore non replica, lo sai.
Ricordamelo
ogni volta che mi baci.
L’Amore risorge dalla morte.
Muta ancora gli eventi.
Riscrive le rotte. E il Canto
ricompone i pezzi.
E verranno altri giorni
incastonati di Bellezza,
lì dove la ruggine
del rimpianto non corrode.
Bendati di luce
splenderemo nella notte
senza l’ombra folle
delle paure.
Il Dolore ci guarderà̀
stupito di quanto
l’Amore possa vincere sul destino.
Soltanto l’Amore, nonostante la mutevolezza, può fermare la giostra impazzita e regalare il tempo e l’attesa, la sola che nutre i sogni, dà ali alla speranza e può spuntarla sul destino. Ma anche la Bellezza può ricucire lo strappo, perché riflette ciò che ci manca: la trappola – per dirla con Simone Veil – di cui Dio si serve per indirizzarci al bene.